INTERVISTE
Intervista pubblicata su MAG n. 3, 2007
Il secondo scultore
Giuliano Mauri e refrattario alle definizioni. Eppure, di fronte all’ impalpabile poesia dei suoi lavori, al disorientamento che nasce dalle sue opere cangianti, il bisogno di tradurre in parole, di decodificare, è quasi irresistibile. Arte ambientale è un’espressione che non rende l’idea, la Land Arte è tutta un’altra cosa, solo arte della natura si avvicina un poco. Ma, se lo si chiede a lui, alzando le spalle dirà soltanto: “Gioco coi rami”. Giocando coi rami ha costruito stupefacenti edifici vegetali, palazzi da ninfa, fiabesche cattedrali nel bosco, strutture che sembrano nate per incantesimo. Opere grandiose ma marcescibili, sfide viventi alle categorie mentali che vogliono l’ arte immortale e collocata nei musei. Il suo lavoro muove da una ricerca profondissima, ma lui tende a minimizzare. Dice che il suo incontro con i luoghi dove opera è «frutto del caso>>; in realtà ha un talento da rabdomante: coglie le vibrazioni di un posto e tira fuori, con le sue mani, quello che la natura si e dimenticata di creare. Nella sua casa di Lodi, il laboratorio è disseminato di rami intrecciati, modellini, prove.
A cosa sta lavorando?
A un progetto per il Comune di Cantagallo, sull’Appennino tosco-emiliano. C’è una radura alle sorgenti del Bisenzio dove sono certo che gli antichi avessero stabilito un luogo sacro: ho pensato a un anfiteatro, una struttura che desse il senso dell’adunarsi. Accade spesso che, nella mia ricerca della natura, mi intrighino invece suggestioni come questa, di tipo antropologico. Qualche anno fa, a Carvico, vicino a Bergamo, trovi una bellissima sorgiva trasformata in una fogna! E la gente del paese non se n’era nemmeno accorta! Allora ho costruito proprio lì un grande tempio di legno, molto alto, che fosse insieme un’allusione alla sacralità della natura, un luogo della memoria e un monito a vigilare.
Nel suo lavoro c’è un’attenzione storica?
A Padernello, nel bresciano, mi hanno dato il compito di far riemergere una strada romana, una centuria, che nell’ antichità aveva collegato il castello al paese. La strada era stata fagocitata e sepolta da un bosco grandioso: recuperarla cancellando ciò che aveva seminato il tempo sarebbe stato un delitto. Così abbiamo scelto di costruire una passerella sopraelevata in corrispondenza del tracciato dell’antica centuria, lasciando il bosco intatto. Questo è il mio concetto di attenzione storica.
Come nascono le sue opere?
Casualmente, credo. Si va lì, si vede il posto, ci si ragiona sopra. Non è mai questione di inventare, ma piuttosto di scoprire, di cogliere qualcosa che c’è già, di sentirlo. E poi di dargli corpo.
E’ questa la sua definizione di artista?
Non lo so! La mia è una specie di idea operativa: faccio delle cose per stare un po’ meglio. A Gallarate ho costruito un ponte su un fiume inquinatissimo. L’ho riempito di gelsomini. Profumo e bellezza contro puzza e degrado. Una provocazione e un modo per sentirsi meglio. La gente è condizionata dall’ambiente in cui vive molto più di quanto si renda conto, a meno che non sia completamente civilizzata.
Civilizzato è sinonimo di snaturato?
Senz’altro.
Cosa succede quando lavora in città?
Punto a creare un luogo che alla città non appartiene, una parentesi magica. E’ quello che ho tentato di fare alla Triennale di Milano.
Come si colloca la Voliera per umani del Parco di Monza?
Ecco… (ride) Ho osservato a lungo questo parco molto bello, dove un sacco di gente civilizzata si riversa la domenica a cercare la natura. E mi e venuta questa immagine della voliera.
Vuol dire che siamo persone in cattività?
Sì, voglio dire proprio questo.
C’è anche ironia, nelle sue opere?
Ironia, gusto della provocazione, senso del dramma. Un po’ tutto insieme. Per me, del resto, sono luoghi di grande fatica, ma anche di grande felicità.
La Cattedrale vegetale è il suo luogo di più grande felicità?
Il giorno della presentazione al pubblico, la meraviglia evidente dei presenti mi ha ripagato di ogni fatica, è stato un momento molto bello. La cattedrale è l’opera che meglio rappresenta la mia idea.
Possiamo provare a tradurla in parole?
E’ l’idea di lavorare sulla crescita stessa, è uno scolpire con la natura, di cui io, uomo, lavoro la materia come secondo scultore. Alla fine, come sempre, la natura prenderà il sopravvento. A differenza, per esempio, di quanto accade nella Land Art, che interviene sul paesaggio per modificarlo anche sostanzialmente.
Che rapporto hanno le sue opere con l’architettura?
Non lo so. Nessuno. Quello che vedi! Cosa devo rispondere?
Che tipo di ricerche fa per prepararsi a un lavoro?
Non lo chiamerei ricercare, ma piuttosto raccogliere. Ciò che faccio è vivere. Non è che si possa troppo spiegare.
Le sue opere vanno mai al di là di quel che aveva pensato?
Sempre. Per esempio, ora si e scoperto che dove c’è la cattedrale c’è un’acustica stupenda, come nelle cattedrali vere: ci fanno i concerti. Nessuno è più in grado di dire quanto fosse una predisposizione naturale del posto, di cui comunque non c’eravamo accorti, e quanto invece dipende dalle linee di forza create dalla cattedrale stessa. Ma in fondo il mio lavoro consiste proprio in questo: fare qualcosa che potrebbe esserci sempre stata.
Chi realizza materialmente le sue opere?
lo comincio, poi faccio continuare degli operai trovati sul posto. Non sono artisti, ma gente brava a tirar di martello.
Di solito sono orgogliosi di lavorare a un’ opera d’arte?
Qualche volta provano anche loro quella famosa meraviglia, sì, e allora è un bel momento. Ma in un lavoro come il nostro non ha nessuna importanza l’autore. Chi ha inventato il campo di grano? Ecco, io mi sento più simile a quello sconosciuto che a un artista. lntervenendo sulla natura, per poi riconsegnare il proprio lavoro alla natura stessa, il contadino entra nella dimensione del sacro.
Qual è il suo rapporto con il sacro?
Sono ateo, ma ho un grande rispetto per la spiritualità. Mettermi continuamente in relazione con la natura è la mia liturgia. Ci sono luoghi creati da me che sono scomparsi, spariti, marciti: ma la memoria rimane, magari in un albero cresciuto storto per fare spazio al mio lavoro. Questo concetto di eternità mi affascina.
E’ il suo modo per vincere la paura della morte?
Noi dovremmo guardare di più a come la natura si prepara a morire. Alla fine il tempo fa ridiventare tutto terra, e la natura lo trova normale, lo favorisce, lo considera una fase tra le altre. L’uomo invece si dispera. La cultura ci ha fuorviato, ci stiamo auto-distruggendo nel tentativo di eternarci.
La consapevolezza aiuta l’artista a non disperarsi?
Offre una disperazione diversa: più dignitosa, mi sembra. Avere osservato la natura in quella che l’uomo chiama decadenza aiuta a rendersi conto che non c’è una vera differenza tra vecchiaia e gioventù. Solo l’esteta pensa che sia bello solo il perfetto; ma la perfezione è per definizione un momento, e come tale è ferma, quindi morta. La natura ci insegna che la bellezza è il paesaggio, l’attraversamento, l’intera esistenza. E allora la vecchiaia è bella esattamente quanto la gioventù, e la morte si può guardare con un po’ più di lucidità. Però è un concetto che richiede fatica e la gente preferisce banalizzare.
Banalizza anche la sua opera?
Per la cattedrale avevo scelto un luogo isolato a 1200 metri. L’isolamento era parte del significato dell’opera. Ora ci arrivano i pullman di Giapponesi. Nel momento stesso in cui viene apprezzata, si snatura. Non c’è modo di salvarla.
Qual è il suo lavoro meno snaturato?
Ho lavorato per un anno intero su un bosco seguendo le quattro stagioni. Mi è sembrato di creare il mio paradiso personale, mi sono sentito espresso appieno. L’ avranno visto in venti.
Lei è snob?
Senz’altro, si può non esserlo?
Nessuna fiducia negli esseri umani?
Senta, tempo fa, qui vicino, c’erano due filari di pioppi bruciati. Monconi neri, bellissimi, stagliati contro il cielo. Un’immagine molto forte. Mi sono immaginato come sarebbe stato bello se solo ci fosse ricresciuta l’erba. Così mi sono messo a coltivarla. E per molte sere, alla stessa ora, andavo a innaffiarla. Una sera mi affronta il contadino ostile: “Guardi che la curo, non è posto per gente strana, qui!”. Allora ci penso un attimo e dico: “Sto facendo una cosa per la televisione”. Non sapeva più come scusarsi. Non dovrei essere snob?
Lei si sente capito?
Non ho abbastanza soldi per essere capito.
Perché tanta gente apprezza il suo lavoro?
Lo apprezza a patto che non metta in discussione niente.
Le dispiace?
lo penso che ci sia un gran bisogno di filosofia. Di riflessione, di capacita intellettive, di qualcuno che pensi. E invece impera questa fraintesa cultura del fare, dove poi non si fa niente. La destra e la sinistra, un modo di intendere la religione obsoleto, l’ecologismo che si è dimenticato della natura… C’è un’assenza che pesa, ma noi siamo continuamente dirottati su falsi scopi. Ci tengono nelle voliere. Ci istillano la paura dell’altro, del diverso. Lo sa? Tempo fa ho fatto un lavoro sull’immigrazione.
Com’era?
Avevo predisposto delle zattere giganti, da far vagare in un lago con della terra sopra. Le sementi, portate dal vento, hanno fecondato quella terra. Gli alberi nati alla deriva sono cresciuti più forti, adattabili e agguerriti degli altri. Quando poi le zattere si sono arenate, gli alberi hanno messo radici e sono diventati indistinguibili dal resto della vegetazione. Noi ci affanniamo a evitare l’inevitabile,
invece di assecondare la natura.
Quando le sue opere fanno il loro corso, si emoziona anche lei?
Sì. E, nel caso delle zattere, mi emozionò anche vedere che la gente del paese, un paese di emigranti, aveva capito profondamente.
Allora c’è speranza?
Forse … (ride).
C’e un’opera che non ha realizzato?
La prima idea della cattedrale. Mi venne su una spiaggia di fronte al mare plumbeo di Lubecca. Mi piaceva tanto l’idea che si potesse vedere dal mare: sbucare all’improvviso, far strizzare gli occhi ai marinai, far dubitare se fosse una formazione naturale o un’opera dell’uomo. Insomma: destare meraviglia. In fondo è questa la molla di tutto il mio lavoro: immaginare che un giorno, da qualche parte, qualcuno possa provarne meraviglia. Forse non sono snob, sono un bambino.